giovedì 23 aprile 2009

Le signore di Noto



Furbina e Nocerina, 1978.

La breve storia di Noto, stallone del Sud.


di Mauro Aurigi


Quarto in graduatoria su una quarantina di giovanissimi stalloni presentati al Concorso del 1977 a Martina Franca, Noto a soli 30 mesi era già una statua: grande senza essere grosso, muscoloso, armonioso e nerissimo di un nero lucido, splendente; testone da murgese verace su un collo poderoso. Gli avevano dato il nome di un vento del Sud, fatto che in Puglia forse non aveva rilevanza, ma che in Toscana assunse ben altro e profetico significato. Il dottor Romano, gentile e competente (così lo ricordo) direttore di quell’Istituto Incremento Ippico di Foggia a cui erano riservati i primi stalloni della selezione, capì, dimostrandosi così anche intelligente, cosa avrebbe potuto significare per la razza il fatto che finalmente uno stallone fosse acquistato da un allevatore privato (e assai determinato) del Nord. Così, totalmente all’oscuro del fatto che quello fosse il primo cavallo che io avessi mai avvicinato in vita mia, mi disse semplicemente: “Se lo prende lei, rinunciamo noi”.
Due mesi dopo, in un luminoso ma ormai declinante pomeriggio invernale, ero su un impervio viottolo tra i boschi, seguito alla longhina dall’assolutamente indomito quanto docile Noto. Eravamo diretti - a piedi, visto che nessun mezzo meccanico su quel sentiero avrebbe potuto trasportarci - alla sua destinazione finale: 45 ettari pietrosi di bosco e sterpaglia nel versante meridionale dei Monti del Chianti, monti aspri come nessuna catena alpina o appenninica. Lì lo aspettavano due fattrici, pur esse provenienti dalla mostra di Martina Franca: Furbina e Nocerina. La prima aveva già una decina d’anni. L’avevo acquistata nonostante l’età perché Jenny Bawtree, l’esperta amazzone inglese che aveva accettato di accompagnarmi a Martina, nel vederla aveva detto: cavalle così si trovano solo in Irlanda, ma in Toscana non ne ho mai vista una. L’altra invece era una puledra di 30 mesi, più modesta sotto ogni aspetto, ma scelta perché dal recinto in cui si trovava, in mezzo ad una decina di altre consorelle, era l’unica che al mio avvicinarmi aveva continuato a fissarmi molto interessata (insomma fu lei a scegliere me).
Prima ancora di arrivare in vista del recinto, Noto percepisce la presenza delle due e lancia il primo nitrito di avvertimento. Le due rispondono e comincia così, a distanza, un fitto colloquio a tre dal quale sono del tutto escluso. Quando arriviamo troviamo le due belle allarmatissime con le teste che sporgono sopra la sbarra più alta della recinzione: colli tesi, orecchie dritte, occhi sbarrati. Arrivato al bordo del recinto faccio appena in tempo a scavezzare Noto, perché dopo la prima fremente annusata le due prendono una corsa furiosa, coda tesa e testa leggermente volta indietro, lungo il lato destro (interno) della recinzione. E Noto dietro, a valanga, lungo il lato sinistro (esterno). Solo che cinquanta metri più avanti la recinzione vira ad angolo retto a sinistra diventando una possente barriera di pali di castagno messa di traverso sulla traiettoria del povero Noto. Questi, mentre le cavalle continuano la loro corsa sfrenata, si abbatte sull’ostacolo con tutti i suoi sei quintali, nonostante un tardivo, disperato tentativo di frenata che lo fa letteralmente accosciare sui posteriori. La recinzione va in frantumi tranne la traversa superiore di ben 15 centimetri di diametro che resiste alla terrificante mazzata della sua fronte. Noto stramazza al suolo finendo la sua scivolata all’interno del recinto. E lì rimane immoto. Morto! non può essere sopravvissuto a un simile trauma, mi dico, mentre mi passa davanti agli occhi, come in un film, il mio futuro di allevatore fallito prima ancora di cominciare (primo fulminante, terribile pensiero: come portare via quel corpo da lì? trascinato da un trattore? e fino a dove?). Ma quella fu la prima di una lunga serie di gradite sorprese che la razza mi riserberà nei quindici anni successivi. Infatti dopo una manciata di secondi Noto si rimette sulle quattro zampe (impressionante l’immagine di forza smisurata che mostra in quel semplice atto) e si rilancia urlando all’inseguimento delle due che nel frattempo si sono fermate, tutte frementi, sull’orlo del bosco in fondo al campo. E comincia la sarabanda: le cavalle, inseguite da presso, riprendono la fuga esibendosi in una serie infinita di terribili coppiole che vanno regolarmente e rumorosamente a segno con impressionate precisione sul muso, sul collo, sul petto, sulle zampe. Ma lui niente: incassa e continua l’inseguimento in mezzo agli ulivi, avanti e indietro, come se quei tremendi colpi non toccassero a lui, ma a qualcun altro. Il furioso e cruento carosello dura una mezz’ora. Fortunatamente per me, l’intera sceneggiata si svolge tutta in quel fazzoletto di terra senza sconfinare e sparire nel bosco circostante, evento che mi avrebbe impedito di capire come e dove sarebbe terminato e con quante vittime. Nel frattempo, improvvisa e lancinante, un’altra ipotesi mi attraversa il cervello: e se dalla falla nella recinzione si lanciano fuori le due femmine inseguite da Noto, come riacchiappare il terzetto e dove? persi per sempre in quella sterminata distesa di boschi, tra le maggiori nella regione più boscosa d’Italia? Mi disinteresso di tutto il resto per qualche minuto dedicandomi a tamponare alla meglio la falla con ciò che resta della barriera distrutta e con pali di fortuna. Quando rialzo gli occhi il terzetto, sudato e fumante nel freddo degli ultimi raggi del sole invernale si è calmato accanto all’abbeveratoio. Si è calmato per modo di dire: Furbina beve avida e tranquilla, mentre Nocerina fa la guardia: tiene a distanza dall’acqua l’intruso abbozzando mezze coppiole di minaccia che Noto, ormai fermo ancorché fremente, non ha più voglia di incassare. Quando Furbina, con molta lentezza e evidente soddisfazione, si è dissetata si avvicina con fare minaccioso al promesso sposo e si sostituisce a Nocerina per la quale è venuto il turno dell’abbeverata. Il povero Noto, no, lui non deve bere. Soddisfatta la sete le due sostano a lungo, sempre minacciose tra lui e l’abbeveratoio. Quando decidono di lasciargli il passo lo fanno con ostentata e lentissima condiscendenza, strappando qua e là piccoli ciuffi di erba, masticandoli distrattamente. Mai visto un comportamento così vendicativamente umano. Ma le acque sono finalmente calme: le femmine ora pascolano vagando per il campo e Noto pascola dietro a loro, mesto e sottomesso. Femmine terribili.
E’ ormai buio quando finisco di sistemare la recinzione e, stremato, riprendo da solo la via del ritorno attraverso i boschi. Tornerò tra una settimana a verificare se l’esperimento appena iniziato quel pomeriggio - ossia allevare cavalli di pregio in purezza (mica povere bestie da carne) in modo che si allevino da soli - ha cominciato a funzionare, oppure se sarà fallito sul nascere.

Un anno e mezzo dopo è ormai chiaro che l’esperimento ha avuto successo. Merito dei murgesi, ovviamente: con ogni altra razza, totalmente inesperto come ero, avrei fallito. Comunque in famiglia ormai sono in cinque, affiatatissimi e in perfetta salute (che emozione arrivare lassù una mattina di primavera e trovare le due nuove arrivate, Tania e Tittera, come spuntate dal nulla, perfette in ogni particolare, anzi più che perfette con la loro figuretta tutta gambe che, nerissima sul verde chiaro e brillante della giovane erba, si staglia come a nessun altro cavallo è concesso!).
Quello era il momento di tentare un nuovo azzardo, secondo me mai tentato prima: far domare il primo stallone murgese della storia per vedere l’effetto che fa. La cosa era ovviamente sconsigliatissima da tutti gli “esperti” (non si domano gli stalloni!), ma io non avevo dubbi a tale proposito: troppo dolce di carattere Noto, per riservare brutte sorprese. Amici di cui mi fidavo mi raccomandano a Albino Luciani, uno stimato buttero del Deposito quadrupedi dell’Esercito a Grosseto nella cui famiglia di butteri il cavallo è di casa da diverse generazioni. Scambio di telefonate e Albino un sabato mattina, insieme a un collega molto anziano arriva con un van. Mentre percorriamo a piedi i due chilometri di sentiero, mi chiede sorpreso:
“Ma lei tiene i cavalli in queste pietraie?”.
“ Sì, e ci stanno benissimo”.
“E chi li guarda?”.
“Nessuno, si guardano da soli: sono due settimane che non li vedo”.
“E lei fa tutto da solo?”.
“Sì”.
Dopo un poco fa:
“Ma, scusi, il maschio è intero?”.
“Sì”.
“E è brado da quattro anni?”
“Sì, brado dalla nascita”.
“Bah! staremo a vedé”, conclude perplesso assai.
I cavalli devono averci sentito arrivare, perché sono tutti all’ingresso col muso rivolto verso di noi.
“E’ quello grosso!?” esclama Albino con un tono strano.
“Sì”, dico e lo guardo per vedere se è preoccupato. Ha gli occhi spalancati per la sorpresa. Si rivolge al buttero anziano e dice (testuale):
“Cinque centimetri di collo in più e questo era il più bel cavallo della Toscana”.
L’altro, un tipo silenzioso, annuisce convinto. Per rassicurare i due mi avvicino a Noto che rimane lì, immobile, a farsi grattare la radice della criniera. Albino lo vuole incavezzare lui e lo porta fuori dalla recinzione. Il cavallo lo segue docile, non accenna a nessuna resistenza, ma si vede che è disperato. Albino è sempre più sorpreso.
“Sicuro che durante tutto questo tempo non è mai stato maneggiato e che non ha mai abbandonato la sua razzetta prima d’ora?”
Si sente che è incredulo. Prima di allora non aveva mai neanche sentito parlare del murgese. Per un uomo di Maremma il comportamento di Noto è inconcepibile.
“Lei a trovare uno stallone così ha avuto un c… straordinario. Se lo tenga stretto perché uno così non lo ritrova più”.
Gli credetti sulla parola, ma ci sbagliavamo tutti e due. Di stalloni ne ho avuti altri tre, senza contare la ventina che, sulla scorta della mia esperienza personale, altri amici si sono lasciati convincere ad acquistare: uno migliore dell’altro.
Una settimana dopo Albino mi telefona per dirmi, più incredulo che mai, che è già in sella, e neanche tre mesi dopo mi dice che Noto è pronto, mai avuto un cavallo così sensibile, una potenza ai posteriori senza precedenti: “Che c… hai avuto, Mauro!”. E’ così che Noto torna tra le sue femmine (che spettacolo le pazze corse di tutto il branco per quella rimpatriata!).

Esattamente un anno dopo chiamo nuovamente Albino per invitarlo a una serata di cinghiale alla brace, vino di quello bono e pochi intimi: così, gli dico, con l’occasione si prende Noto e si vede come si comporta dopo un anno. E lui: ma come!? non l’hai mai montato? No, non l’avevo mai montato. Io non monto e nessun altro, appena vedeva quella montagna di muscoli, ne aveva avuto il coraggio. Albino arriva, sella il cavallo in mezzo al pascolo, con gli altri animali che lo circondano incuriositi, lo fa girare alla longhina per qualche minuto e infine spara due o tre rumorose manate a palma aperta sulla sella. Noto sopporta tutto senza battere ciglio, senza emozioni. Albino monta in sella molto cauto, ma poi mi guarda tutto soddisfatto e sparisce nel bosco, giù nella valle. Passa mezz’ora senza che si faccia vedere o sentire. Comincio a preoccuparmi e lancio occhiate sempre più ansiose verso il bosco che l’aveva inghiottito. Già cominciavo a temere che Noto, finita la pazienza, l’avesse scaricato da qualche parte e se ne fosse andato chissà dove, quando li vedo spuntare da tutt’altra parte. “Come se l’avessi montato fino a ieri sera”, dice Albino laconico, “sono andato un poco in giro perché è un divertimento farlo con lui. Non è una poltrona, è un salotto. Cammini su terreni accidentati e rocciosi senza accorgertene, è come se sotto ci fosse un terreno piatto e erboso. Mai provata un cosa del genere. Hai avuto un bel c… a trovare un cavallo così …”.

Passano altri quattro anni. La famiglia è diventata numerosa. Ci sono sette fattrici ora. Ma quattro sono figlie di Noto (mi sono tenute le più belle) e io non voglio andare in consanguineità. Per qualche mese mi agito nel dubbio se liberarmi del padre, sostituendolo con un altro stallone, o delle figlie. Decido per la prima alternativa: le figlie sono bellissime, temo di non riuscire a trovarne quattro altrettanto belle e poi le sento più mie: le ho viste nascere e crescere...
Una cooperativa di agricoltori delle colline circostanti che allevava cavalli da passeggiata mi stava dietro da tempo perché avevano avuto esperienze negative e anche tragiche con gli stalloni raccogliticci che avevano impiegato in allevamento brado. Uno produceva brutti soggetti, un altro, pazzo, trasmetteva la sua pazzia alla discendenza. Uno non amava le cavalle chiare e non le copriva, un altro addirittura ammazzava le cavalle che gli restavano antipatiche. Volevano provare con un maschio selezionato, insomma blasonato. Ci mettemmo d’accordo che l’avrebbero preso a settembre alla Mostra cavallina di Siena, dove avrei portato tutta la mia razzetta.
A settembre nuova telefonata a Albino a Grosseto: “Vieni alla fiera di Siena per vedere cosa è rimasto a Noto della tua doma dopo 5 anni di vita brada?”. “Sicuro che vengo”.
Vengono in tre: lui, il solito buttero anziano taciturno di cui conosco solo il nome, Ivan, e un giovane buttero delle nuove, estroverse leve (la Maremma oramai è romanticamente considerata il Far West italiano e i butteri stanno al gioco). E’ la prima manifestazione del genere a Siena. Un centinaio di cavalli e la solita confusione di tutte le fiere. In un recinto ci sono Noto e tre cavalle del suo branco. In un altro, pronto a sostituire Noto, c’è il mio nuovo stallone di tre anni, Trovatore, già domato da Marco Roghi (ma questa è un’altra storia). I tre butteri portano Noto nel grande rettangolo al centro della manifestazione. I due più anziani, uno per parte, tengono stretto l’animale, mentre il più giovane con grande cautela lo sella e poi, con ancora maggiore lentezza, monta. Noto non dà alcun segno di preoccupazione. Rinfrancato il giovane fa il ganzo: con tono di falso stupore fa agli altri due: “Ma perché lo tenete? Lasciatelo, no!”. E comincia a caracollare in giro. Quando mi passa vicino mi dice:
“Ma lei vorrebbe farci credere davvero che per quattro anni questo cavallo è stato brado senza interruzione? Ci cogliona vero?”
“E’ vero, neanche mai incavezzato una volta sola!”.
Lui scuote la testa e grida:
“Portate dentro anche le cavalle e quell’altro stallone! Dieci minuti dopo nel rettangolo si muovono insieme e in totale tranquillità Noto, due delle sue cavalle montate dagli altri due butteri e Trovatore con in sella Arduino Ventimiglia. E’ già un piccolo straordinario spettacolo - ne parlerà La Nazione il giorno dopo - e si è radunata un bel po’ di gente. Marco Roghi, che pure aveva domato Trovatore ed aveva cominciato a conoscere la razza, guarda incredulo. Anche io, che pure da tempo pontificavo sulle qualità dei murgesi, non mi sarei mai aspettato tanto. Piccolo spettacolo nello spettacolo, Arduino dopo un po’ grida a Marco: “Guarda! Ci vogliono mesi per domare a mazzetto un cavallo, ma questo qui in quindici minuti ha bell’e imparato!”.
Oramai ero certo: non avevo sbagliato ad aver capito prematuramente, solo contro tutti, che razza di patrimonio genetico avevamo in mano. Potevamo portare in esibizione di lavoro, cosa che l’Italietta equestre finora non poteva fare, degli stalloni! Finalmente ci potevamo allineare alle nazioni equestremente più evolute. Ora l’avventura del murgese poteva davvero cominciare.

Noto se ne andò alla fine della fiera nei pascoli della cooperativa e lo persi di vista. Anni dopo seppi che era morto. Non volli approfondire. Temevo di scoprire che era morto perché in quell’azienda non erano gli stalloni a non funzionare, ma gli uomini. Il magone per essermene privato era ancora vivo e non volevo che diventasse doloroso rimorso per averlo incautamente venduto, senza prendere prima le dovute informazioni. Ma non lo potrò dimenticare mai. E trenta anni dopo mi tormenta ancora il fatto che nessuno saprà mai cosa Noto poteva diventare se avessi spinto nella preparazione e nell’addestramento come si è cominciato a fare decenni più tardi con altri murgesi. E non mi consola il fatto che sempre chi esplora strade nuove, prima o poi, volente o nolente, è destinato a farsi del male.